Giovanni Duns Scoto: riassunto

La vita di Giovanni Duns Scoto

Fu chiamato dai contemporanei Doctor Subtilis per la finezza e profondità della dottrina. Giovanni Duns Scoto nacque nel villaggio di Duns in Scozia nel 1266. Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio erano a quel tempo all’apice della loro produzione scientifica.Duns Scoto

Si formò e operò nei due maggiori centri di studi: Oxford e Parigi. All’Università di Oxford apprese una concezione estremamente rigorosa del «procedimento dimostrativo. A Parigi maturò il bisogno di puntare da una parte sull’autonomia della filosofia e dall’ altra sullo specifico ambito ricchezza dei problemi della teologia.
Giovanni Scoto vestì l’abito di San Francesco nel 1278 per mano di un suo zio, Elia. Studiò teologia a Northampton, in Inghilterra, dove fu ordinato sacerdote nel 1291.

Inviato a Parigi negli anni 1291-1296 per approfondire gli studi filosofici e teologici, rientrò in Inghilterra, nello studio dei Frati minori annesso alla Università di Cambridge. Da Cambridge passò a Oxford (1300-1302) e da qui a Parigi (1302-1303). Respinse, con altri professori dell’Università, l’appello di Filippo il Bello al Concilio contro papa Bonifacio VIII. Fu quindi costretto a lasciare Parigi e a far ritorno a Oxford. Per le crescenti tensioni fra l’imperatore e il papa, Scoto fu presto richiamato allo studio di Colonia. Qui, dopo un anno di insegnamento, morì nel 1308.

L’iscrizione scolpita sulla tomba ne riassume la vita tormentata:

Scotia me genuit / Anglia me suscepit / Gallia me docuit / Colonia me tenet («La Scozia mi generò, l’Inghilterra mi nutrì, la Francia mi istruì, Colonia mi tiene»).

Per cogliere il diverso peso teoretico degli scritti di Duns Scoto, occorre distinguerne un primo gruppo di opere da un secondo. Il primo, per lo più dell’età giovanile, è costituito dai Commenti a opere di filosofi antichi (Aristotele e di Porfirio). Un secondo gruppo, appartenente al periodo della maturità, rappresentato dai Commenti alle Sentenze di Pietro Lombardo.

Distinzione tra filosofia e teologia

Duns Scoto è contro l’assorbimento agostiniano della filosofia da parte della teologia. E’ anche contro il concordismo tomista tra filosofia e teologia. Egli propone la netta distinzione dei due ambiti. La filosofia ha una metodologia e un oggetto non assimilabili alla metodologia e all’oggetto della teologia. Le dispute che si andavano moltiplicando e le condanne che spesso ne seguivano avevano, secondo Duns Scoto, una comune origine. Non delimitavano bene gli ambiti di ricerca. Da qui l’importanza di precisare gli orientamenti specifici della filosofia e della teologia.

La filosofia si occupa dell’ente in quanto ente e di quanto è a esso riducibile o da esso deducibile. La teologia, invece, tratta degli articula fidei o oggetti di fede. La filosofia segue il procedimento dimostrativo, la teologia il persuasivo. Il pensiero filosofico si arresta alla «logica del naturale», la teologia si muove nella «logica del sovrannaturale». La filosofia si occupa del generale o universale. La teologia approfondisce e sistematizza quanto Dio ci ha rivelato circa la sua natura personale e il nostro destino. In Duns Scoto è dunque presente il principio della separazione tra scienza e fede proposto successivamente da Galielo Galilei e caposaldo dell’epoca moderna.

La filosofia è essenzialmente speculativa, mira a conoscere per conoscere. La teologia è tendenzialmente pratica, ci parla di certe verità per indurci ad agire meglio. La filosofia non migliora se posta sotto la tutela della teologia. Quest’ultima non diventa più rigorosa e persuasiva se utilizza gli strumenti della filosofia. La pretesa degli Aristotelici avicennisti e averroisti di surrogare la teologia con la filosofia, il tentativo degli Agostiniani di surrogare la filosofia con la teologia, l’orientamento dei Tomisti di ricercare a ogni costo l’accordo tra ragione e fede, tra filosofia e teologia, si spiegano, secondo Scoto, col non sufficiente rigore con cui vengono sostenute queste prospettive.

Dal complesso al semplice: distinguere senza ambiguità

Duns Scoto intende evitare equivoci e deleterie commistioni tra elementi  filosofici ed elementi teologici. Egli propone perciò di sottoporre ad analisi critica tutti i concetti complessi al fine di ottenere dei concetti semplici. Con questi ultimi bisogna poi procedere poi alla costruzione di un fondato discorso filosofico. Il compito del filosofo è di contribuire a dissipare la complessità dell’esistente. In tale contesto Duns Scoto elabora la dottrina della distinzione: 1) reale, 2) formale e 3) modale.

  1. Tra Socrate e Platone c’è una distinzione reale.
  2. Fra l’intelligenza e la volontà la distinzione è solo formale.
  3.  Tra la luminosità e il suo specifico grado di intensità la distinzione è invece modale.

Se ciò è vero, un concetto può essere concepito senza l’altro. Oltre a queste distinzioni c’è la distinzione di ragione. Questa ha luogo allorché scomponiamo ulteriormente un concetto, per comprenderne più chiaramente il contenuto, senza che ciò abbia un corrispettivo nella realtà. Si tratta di un bisogno logico, più che ontologico.

La via della semplificazione è quella che distingue i concetti fra loro, quella che porta dal complesso al semplice. Si tratta cioè di individuare quelli che Duns Scoto chiama concetti simpliciter simplices, più semplici del semplice, nel senso che ciascuno di essi non è identificabile con nessun altro. Si tratta di concetti univoci che è possibile cioè solo negare o affermare di un soggetto.  I concetti analogici, invece, data la loro complessità, possono essere attribuiti o meno allo stesso soggetto da angolazioni diverse.

L’univocità dell’ente (ciò che è in atto)

Ebbene, tra tutti i concetti univoci, il concetto primo e più semplice è quello di «ente». Ente è il participio presente del verbo essere e indica letteralmente ciò che è (esistente). Esso predicabile di tutto ciò che in qualsiasi modo è. L’ente univoco è poi il fondamento della metafisica di Duns Scoto?

Non tutte le cose infatti sono in pari modo. La luminosità del sole è infatti molto diversa dalla flebile fiamma di una candela, come la razionalità di Dio lo è rispetto a quella dell’uomo. Si tratta allora di individuare il concetto in sé per così dire a prescindere dal modo o intensità con la quale esso si presenta. Si avrà così ha il concetto semplice e pertanto univoco di ente.

Questo sarà universale perché predicabile di tutto ciò che è in maniera univoca. Esso si predica infatti sia di Dio sia dell’uomo perché entrambi sono. La differenza tra Dio e l’uomo sta nel fatto che il primo è al modo infinito il secondo al modo finito. Ora, se prescindiamo dai modi di essere, il concetto di ente si predica allo stesso modo di entrambi. La conoscenza di tale concetto proprio perché a specifica non consente di individuare però i tratti specifici degli esseri dei quali si predica.

Scrive Duns Scoto, sempre nella Ordinatio:

[su_box title=”Neutralità del concetto di essere” box_color=”#f26c45″] L’intelletto, nello stato dell’uomo che è in via, può esser certo che Dio è ente, pur dubitando sui concetti di ente finito o infinito, creato o increato; dunque il concetto di ente applicato qui a Dio è altro da questo o quel concetto, e perciò in sé neutro e tuttavia è incluso in entrambi quei concetti; dunque è univoco.[/su_box]

La nozione univoca di enteesprime l’essenza stessa dell’essere o l’essere in quanto essere. Proprio perché prescinde dai modi di essere, tale nozione è detta da Scoto deminuta o imperfetta.

L’ente univoco oggetto primo dell’intelletto

Convinto che uno dei tratti specifici dell’uomo sia il suo essere intelligente Duns Scoto si premura di precisare l’ambito conoscitivo umano. L’occhio è fatto per il colore. L’orecchio è fatto per il suono. Qual è l’oggetto che esprime l’ambito effettivo nel quale l’intelletto può muoversi? La risposta di Duns Scoto è che tale oggetto è appunto l’ente univoco o l’ente in quanto ente. Come l’ente, perché univoco, è predicabile di tutto ciò che è, così l’intelletto è fatto per conoscere tutto ciò che è, materiale e spirituale, particolare e universale. Non c’è nulla che gli sia precluso. L’uomo col suo pensiero può abbracciare l’universo.

Per la sua universalità, il concetto di ente in quanto ente indica dunque l’estensione potenzialmente illimitata del nostro intelletto. Per la sua estrema povertà e la sua massima generalizzazione, invece, esso ci fa anche intravvedere la povertà dell’intelletto. E’ perciò assurda la pretesa di certi metafisici di dar fondo alla complessità del reale. L’intelletto umano pro statu isto, cioè nella condizione umana attuale, è costretto a seguire il processo astrattivo. Questo mentre coglie l’universale lo priva delle differenze specifiche. L’intelletto coglie il concetto di sedia, ma perde le infinite differenze tra le singole sedie. Perde cioè  la ricchezza effettiva della realtà concreta.

La conoscenza filosofica si ferma alle frontiere dell’universale. La metafisica, occupandosi dell’essere comune a tutti, prescinde dalla ricchezza strutturale delle cose. Accanto alla filosofia occorre porre, in posizione subalterna e autonoma, le singole scienze e, per gli aspetti di salvezza della nostra esistenza, la teologia.

Dalla possibilità dell’esistenza alla necessità dell’ente

La nozione univoca di ente, come visto, è definita  deminuta o imperfetta. La sua mancanza è però ad un tempo bisogno di completezza, concretizzazione. L’ente tende perciò a darsi dei modi, ovvero, configurarsi in concreto. I modi supremi di essere sono la finitezza e l’infinità. Tali modi specificano la nozione univoca di ente secondo il grado di perfezione. I due modi esprimono il passaggio dall’astratto al concreto, dall’universale al particolare.

L’esistenza dell’ente finito non è necessaria prova alcuna, perché oggetto di immediata e quotidiana esperienza. Ma dell’esistenza dell’ente infinito urge una precisa dimostrazione. Il concetto di ente infinito non è contraddittorio in se stesso. Sembra piuttosto che la nozione univoca di ente trovi nell’infinità la sua realizzazione più compiuta. Cosa però ci autorizza a passare dall’esistenza concettuale a quella effettiva? Tra gli enti esistenti ve n’è qualcuno che possa dirsi davvero infinito? Sono questi i termini in cui Duns Scoto pone il problema.

Ciò che esiste di fatto è si certo, ma non necessario. Qualsiasi cosa infatti è, ma avrebbe anche potuto non essere. L’esistenza effettiva è contingente delle cose. Apre cioè ad una possibilità, non una necessità. Dal fatto tuttavia che le cose sono in atto se ne può dedurre che esse potevano essere. Le cose sono perché potevano essere (in linea di principio diciamo così): ab esse ad posse valet illatio. Dall’essere al poter essere vale l’inferenza. Anche se scomparisse, sarebbe sempre vero che il mondo potrebbe esistere, dal momento che è stato.

Il poter essere ha dunque un fondamento di necessità. Resta da chiarire da dove questa giunga. Il fondamento di tale possibilità non può certo essere il nulla (che appunto non è). Non possono essere le cose stesse che sono necessarie solo come possibilità. Occorre che si un che di distinto dall’essere producibile.

L’ascesa a Dio: dalla possibilità alla necessità dell’essere possibile.

Ora, questo essere trascendente la sfera del producibile o delle cose possibili, deve necessariamente esistere e agire per sé. Se infatti esistesse e agisse in virtù d’altro egli sarebbe producibile (è ma  potrebbe non essere). Si porrebbe per lui allora l’identica domanda che si pone per tutti gli altri enti.  Ciò che cerchiamo piuttosto un ente in grado di produrre, ma per nessun motivo producibile. Siamo così giunti all’ente che si andava cercando, perché spiega la possibilità o producibilità del mondo, senza che la sua esistenza, a sua volta, esiga un’ulteriore spiegazione.

In conclusioni: se le cose sono possibili, è anche possibile un ente primo. Ma questo è solo possibile o esiste di fatto? La risposta è che tale ente esiste in atto, perché se non esistesse, neppure sarebbe possibile, dal momento che nessun altro sarebbe in grado di produrlo. Dunque, l’ente primo, se è possibile, è reale.

Ma qual è il suo connotato specifico? L’infinità, perché è supremo e incircoscrivibile. Questo è l’oggetto che Duns Scoto ha assegnato all’intelletto ovvero l’ente in quanto ente. L’oggetto primo è stato dimostrato adesso essere anche infinito e dunque Essere nel senso pieno della parola, perché fondamento della possibilità d’essere di tutto ciò che in effetti è.

L’insufficienza del concetto di ente infinito

Il concetto di ente infinito è il più semplice e il più comprensivo, cui possiamo pervenire. Ma questo altissimo concetto, cui può pervenire il nostro intelletto, esprime davvero la ricchezza personale di Dio, al punto da soddisfare le nostre esigenze esistenziali e di mostrare l’inutilità della teologia e, prima, della Rivelazione? A questo interrogativo cruciale Duns Scoto risponde con estrema chiarezza, affermando che il concetto di ente infinito, cui può elevarsi l’intelletto umano, è per sé povero e insufficiente, perché non riesce a introdurci nella ricchezza misteriosa di Dio.

Dio non è conosciuto naturalmente dall’uomo viatore in forma propria e particolare, cioè secondo la ragione di tale essenza [divina] in quanto questa è in sé.

E ciò per il fatto che l’essenza divina non è una realtà che possa essere compresa naturalmente dall’uomo. E difatti Duns Scoto prosegue:

Non può naturalmente [Dio] esser conosciuto da alcun intelletto creato secondo la ragione di questa essenza in quanto questa, né alcun’altra essenza da noi naturalmente conoscibile rivela sufficientemente questa essenza in quanto questa, né per similitudine di univocazione, né per similitudine di imitazione. L’univocazione infatti non si ha se non nelle ragioni generali; e anche l’imitazione non sorge, perché imperfetta, imitandolo le creature imperfettamente.

Le possibilità e i limiti della filosofia sono dichiarati. Lo spazio e la necessità della teologia sono affermati. Rigorizzare il discorso filosofico, coglierne il carattere generale e astratto, significa porre fine alle sue pretese di esaurire il campo dell’essere. La tendenza di Duns Scoto è dunque quella di riorganizzare l’ambito della ragione filosofica, denunciandone i  limiti strutturali. In questo modo egli afferma indirettamente la superiorità del sapere teologico in grado di aprirci a quei misteri di Dio e a dischiudere quelle prospettive salvifiche. Queste ultime sono infatti estranee al sapere filosofico.

Il dibattito tra i filosofi e i teologi

Duns Scoto intende negare l’affermazione filosofica che l’intelletto sia autonomo e indipendente dalla fede. Nel fare questo analizza la possibile argomentazione del filosofo per poi privarla di fondamento. Ecco i termini della questione.

L’intelletto umano, che ha per oggetto l’ente in quanto ente, inglobante in sé tutto ciò che è – rilevano i filosofi –, estende il suo potere conoscitivo a tutto il reale.

Come i sensi non hanno bisogno di alcuna illuminazione sovrannaturale, così l’intelletto non ha bisogno di alcuna integrazione teologica. Un’ipotetica indigenza di luce superiore riguarderebbe al più aspetti accidentali della vita spirituale, perché è pacifico che natura non deficit in necessariis («la natura nelle cose necessarie non viene mai meno»). I filosofi consolidano ulteriormente la loro posizione richiamandosi alla psicologia aristotelica, che difende l’apertura indefinita dell’intelletto nel suo versante attivo e passivo:

L’intelletto agente può far tutto e l’intelletto passivo può divenir tutto.

A conferma, essi sottolineano che i primi principi, includenti virtualmente ogni possibile conclusione, lasciano intravvedere l’ampiezza del nostro potere conoscitivo. In tale contesto non c’è spazio alcuno per la dottrina sovrannaturale che, in qualunque modo proposta, risulta inutile o ingombrante. Aristotele non ne ha sospettato l’esistenza né invocato l’aiuto.

L’obiezione di Duns Scoto

Ad un esame più rigoroso della situazione storica sembra che occorra ridimensionare tali pretese. Se davvero autosufficienti e con un raggio di possibilità così ampio, i filosofi avrebbero dovuto indicare con perfetta precisione il fine della nostra esistenza. Essi invece si sono limitati a identificare tale fine con la contemplazione delle sostanze separate o addirittura ne hanno messo in dubbio l’esistenza. L’insufficienza delle riflessioni filosofiche è messa allo scoperto sia per la genericità del tessuto concettuale, sia per l’angustia dell’orizzonte fatalistico in cui uomini e Dei sono collocati, rispetto a quello cristiano fondato sulla radicale libertà, divina e umana.

Si aggiunga che l’intelletto, conoscendo la natura umana in sé e il fine ultimo, può individuare anche i mezzi necessari per il suo conseguimento, perché “chi conosce gli estremi di un rapporto non può ignorarne la connessione”.

Queste illazioni, replica Duns Scoto, muovono dal presupposto che l’uomo intuisca se stesso in tutta la sua ricchezza personale. Al momento attuale noi non conosciamo noi stessi se non in modo astratto. All’obiezione che l’intelletto a causa del suo oggetto primo, l’ente in quanto ente, estensivamente infinito, può conoscere tutto ciò che in qualsiasi modo può dirsi reale, Scoto risponde che «l’ente in questione è astratto quanto al contenuto», al limite tra l’essere e il non essere; universale perché indeterminato e pertanto univoco.

Esso indica l’orizzonte del nostro conoscere ma tutto da realizzare: è più un programma che uno svolgimento attuale. Infine, pur riconoscendo al filosofo la totale trasparenza di sé a se stesso, resta vero che la nostra concreta ordinazione al destino sovrannaturale sfugge alle prese di qualsiasi atto conoscitivo.

In merito poi alla conoscenza naturale dei mezzi che consentono il raggiungimento del fine ultimo, Scoto sottolinea che non vi sono condizioni necessarie di salvezza se non per un decreto divino, e che in definitiva tutto si fonda sulla libera accettazione, da parte di Dio, dell’operato umano.

Se ci può essere tra Scoto e i filosofi un accordo circa la perfettibilità della nostra natura, è profondo il disaccordo circa la misura e l’orientamento. I primi, infatti, non sono in grado di sapere ciò che in effetti siamo e possiamo, perché l’esperienza alla quale si rivolgono non è in grado di svelare le nostre effettive aspirazioni, essendo noi in situazione di natura decaduta. C’è un dislivello di piani: non è Dio al livello dell’uomo, come per i filosofi, ma l’uomo è al livello di Dio, con il quale è in grado di entrare in personale dialogo grazie alla Rivelazione e all’Incarnazione di Cristo.

Il principio di individuazione e l’haecceitas

Duns Scoto riafferma il primato dell’individuale negando che esista, in sé o in Dio, la natura o l’essenza di cui gli individui sarebbero delle partecipazioni. Interpretare il singolare come partecipazione dell’universale è concedere troppo alla concezione pagana che disdegna l’uno ed esalta l’altro, e non prendere in seria considerazione l’atto creativo di Dio e la sua provvidenza.

Dio, rileva Duns Scoto, non ci ha proposto uno schema ideale al quale riferirci nell’esistenza quotidiana, bensì Cristo a immagine del quale ci ha creato e alla cui perfezione ci sospinge. Dio conosce tutti e singolarmente, affidando a ognuno un posto preciso nell’economia generale della salvezza personale.

Per Duns Scoto né la materia, essenzialmente indeterminata, né la forma, indifferente all’individualità e all’universalità (essendo, per natura, comune a tutti gli enti della stessa specie), e di conseguenza neppure il composto, possono essere causa delle caratteristiche e delle differenze individuali. E’ la realtà ultima che spiega l’individualità, cioè la sua perfezione, grazie alla quale una realtà haec est, è questa e non altra. Da qui il termine haecceitas, che indica quella formalità o perfezione per cui ogni ente è quello che è e si distingue da ogni altro.

Descritta in forma suggestiva come ultima solitudo, la persona è ab alio, può essere cum alio, ma non in alio. Può comunicare, condizionare ed essere condizionata, ma non perdere la sua inseità. L’ente personale è un universale concreto, perché nella sua unicità non è parte di un tutto. L’individuo è un tutto nel tutto: imperium in imperio. Particolare e universale coincidono nel concetto determinatissimo di persona.

L’uomo, ogni uomo, non è una determinazione dell’universale. In quanto realtà singolare nel tempo e irrepetibile nella storia, egli è in realtà supremo e originario.

Il volontarismo e il diritto naturale

Scoto tematizza il problema dell’ordine e della libertà con l’intento di combattere da altre prospettive il necessitarismo naturalistico dei filosofi reco-arabi. Se Dio è libero e creando ha voluto gli enti singolari nella loro individualità, e non le loro nature o essenze, la contingenza non riguarda solo l’origine del mondo, ma il mondo stesso e tutto ciò che è in esso, non escluse le leggi morali. Se l’accordo tra i pensatori medievali è unanime per quanto concerne la contingenza del mondo, l’accordo è meno pacifico per quanto riguarda le norme morali.

Sul piano morale l’idea di bene quale guida operativa non è deducibile dall’idea dell’essere, ma solo dal Dio infinito. Il bene è ciò che Dio vuole e impone. La sola legge cui Dio è vincolato è rappresentata dal principio di non-contraddizione. Duns Scoto è preoccupato di salvaguardare fino alle estreme conseguenze la trascendenza di Dio infinito, senza falsi compromessi.

Il «diritto naturale» riflette istanze più pagane che propriamente cristiane.

Come è possibile chiamare in causa la natura umana per dar corpo al diritto naturale, quando alla luce di una prospettiva storica occorre distinguere uno status naturae institutae, uno status naturae lapsae e uno status naturae restitutae? Non è vero che Dio ha sospeso leggi che le mutate forze naturali, indebolite dalla colpa, non erano in grado di rispettare? Quali i precetti necessari? Solo quelli contenuti nella prima tavola mosaica, e cioè l’unicità di Dio e l’obbligo di adorare Lui solo. Tutti gli altri non sono assoluti, anche se consoni alla nostra natura. L’intelletto percepisce la verità dei precetti della seconda tavola.

Ma la loro obbligatorietà scaturisce solo dalla volontà legiferante di Dio, nella cui assenza si avrebbe un’etica razionale, la cui trasgressione sarebbe irrazionale, non però peccaminosa. Il male è peccato, non errore, come invece ritenevano Socrate e in generale i filosofi greci:

Come Dio poteva agire diversamente, così poteva stabilire altre leggi che, se fossero state promulgate, sarebbero rette, perché nessuna legge è tale se non in quanto stabilita dalla volontà accettante di Dio.

Ciò che si è detto della volontà di Dio, si dica, con le debite proporzioni, della volontà dell’uomo.

Duns Scoto sottolinea a più riprese il ruolo-guida della volontà che agisce sull’intelletto, orientandolo verso una certa direzione e distogliendolo dall’altra. Se l’intelletto opera sempre con tutta la sua energia quindi con necessità naturale, postulata dalla natura dell’oggetto, la volontà è l’unica vera espressione della trascendenza dell’uomo sul mondo delle cose.

Sottolineando la forza guida della volontà e la sua autodeterminazione, Duns Scoto non cade nell’arbitrarismo. Come può la volontà amare ciò che ignora? La luce dell’intelletto è necessaria, non però determinante. Se per guarire da un malanno è necessario conoscere i farmaci adeguati, l’atto di assunzione non è necessario ma libero, perché alla vita posso preferire la morte.

Se li assumo, l’atto libero sarà anche razionale, nel senso che raggiungo un traguardo con i mezzi che la scienza mette a disposizione. Si tratta qui della convergenza di due diverse attività – intellettiva e volitiva – verso un unico scopo.

Tale convergenza non travisa l’intellettualità dell’atto intellettivo, né la libertà dell’atto volitivo. L’interferenza, per quanto profonda, non giunge mai all’identità. L’atto della volontà, in sé perfetto anche se illuminato dall’intelletto, procede sempre essenzialmente, come da causa principale, dalla volontà. Così come l’atto dell’intelletto, benché guidato dalla volontà, procede sempre e intrinsecamente dall’intelletto.

Nonostante questa autonomia nei rispettivi campi, la libertà della volontà resta la perfezione suprema dell’uomo, con la quale sta o cade la sua umanità: Conoscere per amare in libertà.

Questo orientamento sostanzialmente teologico lascia intravvedere una sorta di dualità tra filosofia, insufficiente e astratta, e teologia. Il Dio dei filosofi non è il Dio dei teologi, creatore e salvatore. Molte verità sono sottratte al dominio della ragione, come l’origine temporale del mondo e l’immortalità dell’anima, per le quali si possono addurre solo delle persuasiones, non delle autentiche demonstrationes. L’equilibrio tra ragione e fede è rotto a favore della seconda.

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